Da Lampedusa a Milano, passando per Rosarno, Foggia e Castel Volturno. Flussi di oro nero solcano lo stivale, irrorando terreni destinati alla filiera agroalimentare. Riempiono le cisterne economiche di un Paese senza memoria, oggi votato alla dissolutezza e al malaffare tanto quanto ieri lo è stato alla miseria e all’emigrazione. A volte si spiaggiano sulle tangenziali del piacere notturno, riversandosi nei veicoli di giovani (e meno giovani) avventori viziosi. Oppure rovinano al suolo nei cantieri delle imprese d’assalto per defluire via, clandestini, a sera, e raccogliersi nei silos dismessi. Nei capannoni cadenti. Nei tuguri sommersi della cosiddetta società civile.
L’oro nero è la linfa vitale dei fatturati italiani, soprattutto di quelli che prosperano nutrendosi nell’ombra, fuori da ogni regola e controllo. Il suo valore di scambio varia al ribasso, in misura direttamente proporzionale alla negazione dei diritti (persino i fondamentali) e in relazione al sesso.
Negli agrumeti dei "cugini" calabresi, o nelle campagne foggiane, la manodopera africana è quantificabile in 20/25 euro a giornata solare di lavoro. Il prezzo "al barile" scende del 17% se la schiena da spezzare è quella di una donna.
Ogni giorno di più sono nere le mani che portano il mangiare sulla tavola degli italiani. Nere quelle che costruiscono le loro case, asfaltano le loro strade, raccolgono i loro rifiuti, pagano loro il fitto.
Sfruttati, discriminati, deportati. Gli schiavi moderni sono tanto indispensabili quanto invisi alla società borghese, che li perseguita con la stessa foga e la stessa arroganza con cui li carica sugli autocarri diretti verso i campi, le fabbriche, gl’imbarcaderi.
I loro destini sono segnati dalle voragini legislative di uno Stato incapace di realizzare politiche integrative, perché complice di un mercato inumano, che punta al contenimento dei prezzi degli alimenti mediante lo sfruttamento di manovalanza a basso costo.
Eppure tra i migranti ci sono potenziali rifugiati politici, uomini di cultura, professionalità. Bagagli di conoscenze destinati a rimanere interrati sotto alture di arance e pomodori.
Sotto le ipocrisie di un popolo che ha nascosto in soffitta le proprie valigie di cartone, per rimuovere il ricordo delle proprie radici. Un popolo involuto, trasformato.
Da sfruttato a sfruttatore, in caccia di oro nero.
di Büyükbaba