Acqua è democrazia. Un diritto per cui resistere
Il 31 marzo, presso la Corte di Cassazione di Roma, sono stati depositati i tre quesiti referendari promossi dal Forum Italiano dei Movimenti per l’Acqua. Dal 24 aprile i numerosi comitati territoriali che si oppongono alla privatizzazione dell’acqua, avvieranno, con banchetti allestiti in tutto il paese, la raccolta firme che si pone l’obiettivo di almeno 500.000 sottoscrizioni in tre mesi per poter richiedere il referendum.
I tre punti della proposta referendaria sono volti a scongiurare l’attuazione delle politiche che, in maniera trasversale, gli ultimi governi hanno elaborato al fine di assoggettare la gestione delle risorse idriche alle logiche di mercato. Oggi, dopo un percorso lungo tre anni, che ha portato il movimento per l’acqua a costituire un fronte compatto, concretizzatosi con la proposta di legge popolare – "Principi per la tutela, il governo e la gestione pubblica delle acque e disposizioni per la ripubblicizzazione del servizio idrico" sostenuta da 400.000 firme – attualmente ferma in commissione ambiente della Camera, risulta chiaro il boicottaggio delle forze politico-istituzionali. Ad esempio Tonino Di Pietro ha presentato nei giorni scorsi in Cassazione una proposta alternativa rispetto a quella dei movimenti, associandola con un quesito contro il nucleare, che è in realtà un’operazione volta a coagulare le forze della "sinistra" parlamentare italiana e risponde, tanto quanto l’orientamento legislativo dell’attuale governo, alle logiche di mercato.
Le posizioni che animano il dibattito sulla questione dell’acqua sono fondamentalmente due: una quella business oriented volta a demandare, secondo un processo graduale, la gestione delle risorse idriche verso soggetti privati (molte volte multinazionali già operanti nel comparto acque potabili), passando dalla forma di società mista pubblico-privata a quelle totalmente privata; mentre, sull’altro versante, si erge la convinzione di una larga porzione di cittadini che considerano l’acqua come un diritto fondamentale dell’individuo, come un bene comune e per tanto non assoggettabile alle dinamiche di un mercato non regolato. Riteniamo che il tema dell’acqua pubblica travalichi i meri aspetti gestionali della sua distribuzione, per rientrare nel discorso della tutela dei diritti delle comunità locali, all’interno dei quali l’autonomia nella gestione delle risorse naturali risulta fondamentale. Ad esempio in un suo recente atto legislativo la regione della Valle d’Aosta (a statuto speciale), opponendosi a linee guida nazionali sul tema, ha classificato l’acqua come bene privo di rilevanza economica sancendone per tanto l’impossibilità di gestirlo a fini di lucro. E la stessa Puglia con Vendola, prima e dopo le ultime elezioni, si sta muovendo in una direzione importante di gestione delle acque e dell’acquedotto pugliese, il più grande in Europa. In Calabria siamo indietro sicuramente, ma se qualche giunta comunale si è mossa per definire, con un semplice voto in consiglio, l’acqua bene comune (es.: il comune di Cosenza) – una cosa che, per definizione, si conosce già da piccoli –, il comune di Saracena in questi giorni ha preso una decisione diversa: prendere direttamente in mano la gestione del servizio affidandola ad un’azienda interna.
In vertenze di questo tipo ogni mezzo è lecito, anche la sola definizione di bene comune, se è l’unica che si riesce ad ottenere. Sia chiaro, pero, che in battaglie del genere, per la difesa delle libertà e dei diritti, che siano di informazione, di conoscenza o di altri beni comuni come l’acqua, appunto, l’unico modo per sperare di vincere è… resistere, resistere, resistere.

di Farabundo Malaussène
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