C’è un mare di miserie, tra l’Africa e l’Italia.
Miserie senza volto, senza nome, ma con un colore preciso: il nero. C’è un mare di speranze, stipate a centinaia su carrette che svaniscono per sempre. Scompaiono negli abissi della coscienza occidentale, prima ancora che nei fondali del Mediterraneo. Approdano su rive inospitali, vomitando lutto e disperazione umana. S’infrangono contro scogliere di pregiudizi, ipocrisie di Stato e forme di schiavitù contemporanee.
C’è una vita intera, per una donna, tra la porta di casa e la strada. Una vita che si spezza all’improvviso, soffocata da mani paterne; si consuma lentamente nel silenzio, tra le mura discrete di un lager domestico; si riscopre più volte violata nell’intimo, mentre giace legata sul talamo delle democrazie "avanzate".
C’è un’eternità tra l’infanzia e l’età adulta. Tra le mani, protese, di un bambino che vuole abbracciare il mondo e quelle, serrate al volto, di tutti i giovani precari sui quali il mondo sta franando addosso.
Ci sono almeno sei epiteti diversi da usare per creare una distanza, ideale ed umana, tra sé e chi vive la propria identità di genere in modo "non convenzionale": lesbica, ciucciafiga, frocio, culattone, ricchione, checca. Una distanza che, da parte di chi la cerca, denuncia assenza di amore umano e, da parte di chi la subisce, denota il desiderio e il coraggio di amare liberamente, malgrado il pregiudizio altrui.
Ci sono quattrocento metri di vuoto politico e bestemmie esoteriche, tra le pensiline e l’Aula Magna dell’Università della Calabria. Quattrocento metri che, anche il 15 gennaio 2009, separavano gli studenti e i ricercatori dalle Istituzioni, il popolo dai suoi governanti, lo stato dei diritti negati da quello dei diritti acquisiti. Quel vuoto si è riempito di pacifica protesta, fervore giovanile, voglia di gridare il proprio sdegno contro i tagli all’istruzione pubblica. Ad arginare quel fiume in piena, armato di striscioni e slogan, sono stati mandati corpi militari e mezzi blindati.
Non è bastato. Forse per questo l’eresia dei "poteri forti" si è manifestata più tardi con cinque denunce a carico di altrettanti studenti e attivisti cosentini. Ma non per reprimere il dissenso e ristabilire l’Ordine pubblico, no.
Solo per creare altre distanze...
C’è una vita intera, per una donna, tra la porta di casa e la strada. Una vita che si spezza all’improvviso, soffocata da mani paterne; si consuma lentamente nel silenzio, tra le mura discrete di un lager domestico; si riscopre più volte violata nell’intimo, mentre giace legata sul talamo delle democrazie "avanzate".
C’è un’eternità tra l’infanzia e l’età adulta. Tra le mani, protese, di un bambino che vuole abbracciare il mondo e quelle, serrate al volto, di tutti i giovani precari sui quali il mondo sta franando addosso.
Ci sono almeno sei epiteti diversi da usare per creare una distanza, ideale ed umana, tra sé e chi vive la propria identità di genere in modo "non convenzionale": lesbica, ciucciafiga, frocio, culattone, ricchione, checca. Una distanza che, da parte di chi la cerca, denuncia assenza di amore umano e, da parte di chi la subisce, denota il desiderio e il coraggio di amare liberamente, malgrado il pregiudizio altrui.
Ci sono quattrocento metri di vuoto politico e bestemmie esoteriche, tra le pensiline e l’Aula Magna dell’Università della Calabria. Quattrocento metri che, anche il 15 gennaio 2009, separavano gli studenti e i ricercatori dalle Istituzioni, il popolo dai suoi governanti, lo stato dei diritti negati da quello dei diritti acquisiti. Quel vuoto si è riempito di pacifica protesta, fervore giovanile, voglia di gridare il proprio sdegno contro i tagli all’istruzione pubblica. Ad arginare quel fiume in piena, armato di striscioni e slogan, sono stati mandati corpi militari e mezzi blindati.
Non è bastato. Forse per questo l’eresia dei "poteri forti" si è manifestata più tardi con cinque denunce a carico di altrettanti studenti e attivisti cosentini. Ma non per reprimere il dissenso e ristabilire l’Ordine pubblico, no.
Solo per creare altre distanze...
di Büyükbaba